Un certo mal riposto senso della libertà di espressione domina e affligge il nostro tempo. È un’epoca questa in cui fotografi, attori e registi, nutriti dalla loro stessa ipertrofia egoica, spuntano come funghi dalla mota dell’anonimato; tutte creature assolutamente pregne dello spirito, dell’essenza dell’arte di cui si sentono gli unici, veri depositari: sacerdoti sussiegosi delle loro corrive muse. Andrebbe forse posto un argine a questa pericolosa ondata di creatività, visto che la selezione naturale lascia alquanto a desiderare. Un effettivo, pianificato controllo delle nascite autoriali potrebbe risparmiare allo spettatore/lettore medio, più o meno edotto delle cose dell’arte, istanti di disperata solitudine intellettuale. Per intenderci, verrebbe finalmente meno quell’attimo agghiacciante in cui al termine, ad esempio, di uno spettacolo teatrale, ci si ritrova nell’imbarazzante condizione di non sapere che partito prendere: se applaudire come i troppo entusiasti e spesso ingenui partigiani della pièce, oppure sfogare la nostra indignazione insieme ai detrattori in platea o all’uscita del teatro. Attimi di pura disperazione! Tuttavia, a pensarci bene, il gioco teatrale è anche un po’ questo: senza una certa rutilante cialtroneria creativa forse ci sarebbe da annoiarsi a furia di capolavori; non era forse Artaud, del resto, a urlare “basta con i capolavori” dalle pagine del suo storico saggio sul teatro? Un gabbiano di Gianluca Merolli, in scena al Teatro Sannazzaro di Napoli il 19 e 20 giugno, da questo punto di vista può certo sentirsi al riparo da ogni equivoco possibile sulla sua natura effettiva.
La scena si presenta sostanzialmente spoglia, ne vengono anzi ostentate le viscere (intravediamo qualche puleggia e qualche altro strumento scenico dalle quinte scoperte); sul fondo del palcoscenico è posto un rudimentale siparietto, un teatrino improvvisato dove avverrà la rappresentazione del poemetto decadente di Kostantin. Gli attori fanno la loro apparizione tutti insieme richiamati dai giri di chiave che Sorin/Nello Mascia effettua nella serratura invisibile della porta della sua tenuta di campagna: a ogni scatto della serratura corrisponde un improvviso lampo luminoso, della durata di qualche secondo, che illumina tutti i personaggi del dramma intenti in qualche azione ludica tipica dell’otium borghese. Dopo questo breve prologo i personaggi si presentano al pubblico, uno alla volta, urlando il proprio nome, procedura che si ripeterà anche alla fine dello spettacolo. Il testo di Čechov è sostanzialmente rispettato, almeno per quanto riguarda la lettera, per lo spirito… beh lo spirito va messo da parte stavolta, non c’è, si è smarrito, era da qualche parte e il regista ne era pur consapevole, ma è poi andato perduto nella chiassosa colonna sonora e nei movimenti concitati degli attori.
Lo spettacolo vuol di fatto porsi come una interpretazione antirealistica dell’opera del drammaturgo russo; una lettura convenzionale - nel senso teatrale del termine - ossia resa attraverso una riscrittura simbolica della partitura gestuale e cinetica degli attori. Questi ultimi mettono in mostra le loro doti ginniche, la propria padronanza dei movimenti corporei: Kostantin/Gianluca Merolli racconta della sorte toccata all’amata Nina, nei due anni che li hanno tenuti separati, rimbalzando con tutto il corpo sul materasso di un lettino; Trigorin parla della sua arte e dei suoi intenti seduttivi nei confronti di Nina danzando come un monaco shaolin; i movimenti di Masha/Giulia Maulucci, Nina/Francesca Golia e Medvedenko/Fabio Pasquini sono altrettanto funambolici e frenetici. La colonna sonora è composta da brani rigorosamente moderni suonati ad altissimo volume con l’intento, riuscito in buona parte, di aggredire l’udito del pubblico.
L’opera di Merolli, del resto, vorrebbe proprio attentare alla sicurezza percettiva del pingue pubblico partenopeo, sconvolgerne le aspettative, mettere il quieto e progressista abbonato di fronte a qualcosa di violentemente nuovo. Tuttavia v’è troppa approssimazione: l’uso dei fantocci di cartapesta come simulacro degli altri personaggi marginali del dramma cechoviano non è molto efficace e il connubio attore in carne e ossa e pupazzo a tratti risulta involontariamente ridicolo; gli attori si muovono troppo, ad ogni loro azione non corrisponde uno stato d’animo precipuo, un conato emotivo, ciò determina l’attestarsi del lavoro cinetico/simbolico del regista su di un piano meramente pellicolare; la musica di Luca Longobardi infine diviene da perturbante ossessiva, e infine semplicemente fastidiosa. Insomma questa tigre ha i denti ma non morde; l’urlo di un gabbiano si fa sentire e la pelle si accappona, tuttavia il terrore è legato a ben altro che a un inquietante, ma fascinoso smarrimento estatico: è il terrore di quello spaesato spettatore che non sa che fare, se lanciare ortaggi o gridare al capolavoro!